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 Nr.17 del 09/07/2007
 
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La casta e la politica
Il dibattito di questi ultimi mesi, vorremmo dire di questi ultimi anni, è intriso di discussioni senza fine, vere e proprie diatribe, analisi scientifiche, ricerche sociologiche sullo scollamento fra il ceto politico e la società civile, fra gli italiani e la politica


  



  


Tema d’inesauste indagini quello del rapporto tra il vivere civile di chi, impegnato nel superamento delle quotidiane difficoltà del lavoro, non ha tempo per i bizantinismi di un mondo d’esegeti dell’arte del sofisma, e l’otium occupatum di un «ristretto» gruppo di privilegiati impegnati nella gestione della cosa pubblica. Questo dibattito, si vorrebbe dire fra sordi, ha raggiunto il suo acme di recente, con la pubblicazione per i tipi della Rizzoli del volume «La casta» di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, che, probabilmente grazie anche ad una ben congegnata macchina propagandistica gestita dal maggiore quotidiano italiano, ha rapidamente scalato la graduatoria degli hit dell’editoria, arrivando a vendere decine e decine di migliaia di copie in un paese che, come sappiamo, legge atavicamente poco.
Abbiamo però deciso di aspettare un poco, quando il polverone mediatico sollevato dall’opera di Rizzo e Stella si sarà sgonfiato, per rileggerne le pagine, a mente sgombra da facili entusiasmi. È facile prevedere, anche senza essere dotati di particolare lungimiranza, che nei prossimi mesi e molto probabilmente anche nei prossimi anni, nulla di sostanziale muterà in un paese come il nostro, dove il cosiddetto cambiamento è solo uno strumento per consolidare le rendite di posizione che si sono col tempo costituite.
Abbiamo però deciso di prendere spunto dal parallelismo, instaurato dai due autori, fra «la casta» dei politicanti d’oggi e un ceto d’uomini politici di diversa caratura che a loro dire, ma possiamo nel complesso essere d’accordo, ha bene o male dato vita a quella repubblica democratica che per un cinquantennio ha gestito, fra molte procelle ma anche con alcuni indubitabili successi, la crescita della società italiana nella seconda metà del secolo appena concluso.

L’invito che rivolgiamo ai nostri lettori è invece di fermare la loro attenzione, ove avessero interessi storico-politici, su due volumi relativamente recenti ed editorialmente di nicchia, ma che presentano un certo interesse poichè consentono di mettere a fuoco la differenza fra il ceto politico dell’inizio del XXI° secolo e quello della seconda metà del XIX° secolo.
I due volumi sono «Joseph Weydemeyer. Pioniere del socialismo in America, 1851-1866» di Karl Obermann (Edizioni Pantarei 2002, pag.302, Euro 13,00) e «Liberali e democratici alle origini del movimento operaio italiano. Congressi delle società operaie italiane, 1853-1893» di Emilio Gianni (Edizioni Pantarei 2006, pag. 346, Euro 15). Entrambi i volumi, l’uno con una maggiore attenzione a un caso esemplare l’altro con una più specifica analisi di una realtà collettiva, indagano l’origine di quel movimento di rivendicazione della dignità del mondo del lavoro che oggi più che mai appare gravemente indebolito, deprivato di un retaggio storico, alla ricerca di una propria collocazione in una società che lacera rapporti umani e relazioni sociali mascherando il primato dell’egoismo individuale sotto la veste della immodificabile centralità delle cosiddette leggi del libero mercato.
Nella seconda metà dell’800 la situazione non era granché diversa. Il dominio indiscusso di una borghesia imprenditoriale, sicura di sé e decisa a consolidare profitti ed egemonia politica, aveva trasformato radicalmente il mondo creando un’unica rete di contatti, commerci, migrazioni su grandi distanze e trasformazioni naturali ed economiche tali da ridisegnare il volto di un globo fino ad allora legato, nella sua maggiore parte, a modelli di vita atavici, per non dire primitivi.
E’ su questa trasformazione irreversibile e di grande momento che insistono entrambi i volumi.

Il primo analizza la parabola umana di un emigrante tedesco in terra d’America. Joseph Weydemeyer non è un qualunque derelitto che va alla ricerca di fortuna nel nuovo mondo, spinto dalla presa d’atto della mancanza di speranze nella sua terra. Weydemeyer è un emigrante diremmo di “lusso”, ufficiale prussiano, colto e ben inserito nella sua società, ma incapace di adeguarsi alla rigida modellistica dell’ipocrisia sociale tedesca e ancor di più sensibile alle drammatiche condizioni di vita del mondo operaio e popolare della sua terra. Si avvicina ai gruppi del socialismo, a Marx e ad Engels, e nel 1848 partecipa alle attività politiche radicali della «primavera dei popoli» che lo portano in rotta di collisione con la società della sua terra. Di qui la decisione di trasferirsi negli USA, che appaiono nonostante tutto terra di libertà, dove poter riprendere la propria militanza politica accanto alle legioni dei lavoratori emigrati tedeschi. Si tratta di una vita difficile quella di Joseph Weydemeyer, che scopre come la libertà degli USA sia una «dura libertà», fatta di scontri con gli interessi costituiti, di fronte ai quali la possibilità di resistenza dei lavoratori è spesso molto limitata e destinata alla sconfitta. Ciò nonostante il nostro pioniere non demorde, mantiene una vivace corrispondenza con l’Europa e con i «dioscuri» del comunismo, svolgendo un’importante attività di diffusione delle idee socialiste in quelle terre. Ciò ovviamente con un lavoro totalmente gratuito, basato sul volontariato e su una fede nella causa della libertà delle classi subordinate che non viene meno neppure nei momenti di maggiore difficoltà. Poi Abramo Lincoln pone all’attenzione della società statunitense la questione della schiavitù, del paradosso di un paese che si vuole patria della democrazia e che è invece terra della peggiore delle piaghe che possano segnare la dignità umana. Weydemeyer decide di porre al servizio di questa causa la sua esperienza di militare e gli ultimi anni di vita che gli restano. L’esisto della sua avventura umana è che, grazie anche alla sua «pietruzza», la schiavitù è almeno formalmente eliminata dagli USA. L’emigrante tedesco può quindi riprendere la sua lotta per la dignità degli «schiavi» della fabbriche bianche del nord. Attività interrotta da una improvvisa morte nel 1866.

Diversa ma non meno interessante è invece la storia delle società operaie italiane delineata nelle pagine del volume di Emilio Gianni; una vera e propria prima parte di un disegno di grandi dimensioni che vorrebbe ricostruire la biografia individuale e collettiva del movimento italiano dei lavoratori, nelle sue componenti borghesi e proletarie. Questo primo volume si fa apprezzare proprio per l’originalità del percorso, che, partendo dalle contraddizioni della storia risorgimentale, consente di ricostruire il volto popolare dell’Italia della seconda metà del XIX° secolo. Attraverso l’analisi dei congressi delle società operaie, che sfoceranno poi nella fondazione del Partito Socialista Italiano, si ha la possibilità di comprendere le contraddizioni di fondo che hanno segnato la storia del socialismo e del comunismo italiano dalle origini fino alle non esaltanti pagine di oggi. Emilio Gianni sommessamente, fin da questo primo volume, fa notare come il pur generoso sforzo collettivo, che ha visto uniti nei sacrifici della scelta di classe, accanto a lavoratori manuali, numerosi borghesi e perfino dei nobili, è stato inficiato dalla mancanza di chiarezza fra tre diverse correnti che hanno collaborato alla costituzione del movimento operaio italiano: quella liberale, conciliatrice, quella democratica, razionalista, che puntava a rifiutare la realtà politica in nome di un ideale artificioso, classicheggiante, incapace di trasformare le parole in fatti, ed infine, per concludere con le stesse parole dell’autore, «la scuola comunista (che)...il mondo d’oggi non lo rifiuta: lo cambatte». A quell’epoca però ancora largamente minoritaria.

Quelli che vi proponiamo sono certo due libri non da leggere, da consumare secondo l’imperante dogma dell’oggi, ma da studiare per meglio comprendere la realtà che viviamo ed evitare il rischio di restare impreparati di fronte al continuo evolversi delle contraddizioni della società e della politica.



Giulio Toffoli


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