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sabato 20 aprile 2024 | 07:12
 Edizione del 16/05/2017
 
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STORIE PARTIGIANE

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STORIE PARTIGIANE
( VERSIONE TESTUALE )

Ebbi modo di conoscerlo quando avevo quattordici anni, mentre girovagavo su per la montagna dalle parti della cascina di “Navezze” dove lui abitò, con moglie e mucche, per una decina d’anni.
Era un uomo corpulento, taciturno, con una perenne barba corta, bluastra. Guardandolo si ricavava l’idea che qualcuno, con infinita pazienza, avesse infilato migliaia di pagliuzze dell’acciaio più duro su quella faccia scura da carbonaio.
Quando ingenuamente gli feci notare che segare il prato a piedi nudi in quel posto dove le vipere passavano la maggior parte del dopo letargo, mi sembrava pericoloso, rispose che non erano certo quelle le serpi che temeva.
Oggi a circa quarant’anni di distanza ho capito il perché di quella frase sibillina.
Perché il protagonista di questa storia, è lo stesso della poesia “Al partigiano sconosciuto”.
Fu mio zio, suo grande amico, a raccontarmi queste cose.
Non le aveva sentite da lui, anzi lui non gli parlò mai dei suoi trascorsi partigiani.
La prima storia la apprese da un ragazzino che aveva fatto la sentinella alle malghe. La seconda da un amico comune, che aveva raccolto le parole del “partigiano sconosciuto” una sera in cui resero orfana del contenuto una piccola damigiana di Bonarda.
Non ci sono resoconti storiografici della storia del “Mario”, così come di tante altre situazioni, e questo la dice lunga sulla difficoltà di distribuire medaglie d’oro e d’argento alla fine del conflitto, ma non tocca a me trinciare giudizi.
La mia sola intenzione è quella di raccogliere testimonianze, spunti di vita passata, e fare da staffetta affinché le nuove generazioni non dimentichino il sacrificio delle persone che ci hanno preceduto, e che difesero, molte volte con la vita, i valori fondanti di questa giovane Repubblica.


AL PARTIGIANO SCONOSCIUTO

Il vecchio faggio chiuse i rami,
stropicciandosi gli occhi,
saliva lungo il sentiero nascosto,
un uomo grosso, dalla barba incolta.
L’incedere lento e inesorabile
ne dirigeva i passi
verso la malga alta.
Bambini sentinella
sussurrarono: “Pericolo!”,
dileguandosi come donnole.
Il catenaccio scivolò negli anelli,
senza un gemito,
il fuoco era acceso
nella stanza affumicata e silenziosa
e sulla graticola
rosolavano una dozzina di ghiri.

Ai piedi della valle,
bisce dalle scaglie nere
strisciavano verso l’altura
con denti avvelenati
e occhi verticali come fucili.
Il partigiano, si pulì i denti
con una scheggia di legno,
mentre uova di morte
scaldavano il guscio
al tepore della braci morenti.
Attese fino a vederne il bianco degli occhi,
prima di sgranare il suo rosario
senza appello e senza odio.
Nel folto del bosco
il tronco del faggio attendeva risposte.

IL “MARIO”

Ci si era stufati dell’acqua di cisterna
in quell’agosto afoso e sonnolento.
Mi si ruppe l’unica stringa buona
mentre scendevamo da S. Emiliano
verso la sorgente dei “Grassi”,
a volte, il confine tra la vita e la morte
sta nello scorrere di pochi minuti.
Cadde col viso nel cerchio di pietre,
sull’acqua, bolle di schiuma rosata.
Erano in quattro, con quattro mitra
dalle canne corte.
Sulla schiena del “Mario”
una manciata di petali rossi.
Mosche dal colore smeraldo
zampettavano nel sangue.
Stesero un telo mimetico
sotto i rami del carpino,
avevano l’esca
non ancora le prede.
Attesi che le ombre della sera
rendessero i contorni più confusi,
camminai per circa un’ora a piedi nudi,
prendendo un largo giro
che mi portasse una decina di metri più in alto
di quel “drappello di eroi”.
Tolsi la sicura e contai sino a cinque
prima di roteare nel buio
le due bombe tedesche.
Ripresi zaino e scarponi
incurante dei lampi e delle urla,
cercavo tra le lacrime le parole
che avrei dovuto dire quella notte
alla giovane moglie
del partigiano “Mario.

Tra le storie che valgono la pena di essere raccontate, quella della testimonianza di Lino Pedroni, anche lui giovane partigiano della Centoventiduesima Brigata Garibaldi è sicuramente una delle migliori.
L’episodio al quale si riferisce è presente all’interno di uno dei quaderni (il numero 17) della Fondazione Micheletti, a cura del professore Marino Ruzzenenti. Il protagonista del racconto è Giuseppe Gheda, nome di battaglia “Bruno”, comandante della Brigata Garibaldi, la cui statura etica e morale è purtroppo lontana anni luce da quella dei nostri politici passati e attuali. Racconta Lino Pedroni: “Eravamo giù in una cascina della valle del Lembrio. Era successo che qualcuno, spacciandosi per partigiano, aveva commesso delle ruberie in alcune cascine e allora i contadini erano un po’ maldisposti nei nostri confronti. Per questo lui insisteva sempre: “Dobbiamo comportarci bene, perché i contadini si sono un po’ raffreddati verso di noi, non si sequestra niente se non si danno i soldi o se la Brigata non dà il buono per il rimborso!”. Un giorno, con una pattuglia di altri tre, al comando di Nello, siamo andati giù a Mura a bruciare le schede di chi veniva chiamato alle armi. Un’ora e mezza di marcia. Al rientro Nello dice: Passiamo dalla cascina, lì, verso Alone, conosco il proprietario, è mio amico e magari rimediamo qualcosa da mangiare. Arriviamo lì, e lui lo chiama: Menec, Menec! Macchè, non risponde. Aspettatemi qui, che vado su a vedere dove è. Va, e dopo un po’ torna indietro con cinque uova e noi siamo in quattro, e si discute a chi dare la quinta: La diamo al più vecchio, no! No! La diamo al più giovane (che poi ero io), no! No! Allora interviene Nello: Me la prendo io. E toc, se l’è bevuta. Si torna in Brigata e stiamo ancora discutendo della prepotenza di Nello, quando passa il Gheda e ci chiede cosa è successo. Gli raccontiamo la storia, e lui rivolto a Nello: “Hai pagato le uova?:” Eh no, è un amico”. “Non va bene così, adesso prendi su i soldi e torni giù a pagargli le uova!”. Così, Nello, accompagnato dalle nostre risate, mugugnando, si è dovuto sobbarcare di nuovo tutto il sentiero fino giù alla cascina. Quando è tornato, ha tentato di rispondere ai nostri sfottò: “Non capite niente voi, sono andato là dal mio amico, e non solo non ha voluto i soldi, ma mi ha dato pane e salame e un bicchiere di vino”. Già, ma intanto si era fatto due ore all’andata e due al ritorno, e poi costretto per tre giorni senz’arma, per punizione. Questo era Gheda, il migliore di tutti”.


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