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RACCONTI DELLA VALTROMPIA : 4 GENNAIO 1927
L’inverno del 1927 fu come tutti gli altri a Graticelle. Freddo, un gran freddo e tanta, tanta neve. Il primo novembre le cime delle montagne intorno erano già imbiancate. Fu un inverno lungo, solamente a fine aprile la morsa del cielo cedette il passo a temperature più miti
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RACCONTI DELLA VALTROMPIA : 4 GENNAIO 1927
( VERSIONE TESTUALE )

I prati si scaldavano al sole e centinaia di primule sorridevano all’arrivo della primavera.Un manto giallo sostituì quel melanconico bianco invernale. Nei mesi più freddi, gennaio e febbraio, non era facile scendere dalle malghe per procurarsi il cibo di prima necessità. Bisognava superare cumuli di neve e insidiosi sentieri di ghiaccio.
Due fratellini maschio e femmina scesero per tutto l’inverno dalla località Cindosso fino a Graticelle. Armati del loro zainetto, caricavano la farina per la polenta, zucchero, caffè e qualche fetta di lardo.
Mi par di vederli quei piccoli ometti, le guance rosse per il vento gelido. Un dolce sorriso appena accennato, gli occhi velati da una languida tristezza.
Bimbi già grandi che intuivano la tragedia della vita. Nel loro tragitto si tenevano per mano per sentirsi più sicuri; avevano imparato a farsi coraggio sentendosi una cosa sola; la strada era lunga (più di due ore) e i pericoli erano ovunque.
Arrivati al piccolo negozio che faceva da osteria, punto di riferimento per tutto il paese, i due bambini, tutti trafelati, si intrufolavano velocemente nella porta laterale per non incontrare i veci ciuchitù come li definiva la mamma.
Quei veci ciuchitù erano uomini che andavano a “spassarsela” la domenica pomeriggio, dopo aver lavorato come muli tutta la settimana nelle miniere di Collio.
Si incontravano per un calice, una partita a mura, una barzelletta, per dimenticare le ostilità che presentava giornalmente la vita.
L’ostessa, una signora imponente dal fare apparentemente sgarbato, aspettava i due fratellini con ansia, come fossero stati suoi figli.
Figli che lei non aveva mai avuto: il suo giovane sposo non era tornato dalla Grande Guerra, disperso sul confine austriaco.
Nei primi cinque anni, dopo la fine della guerra, lei lo aspettò con tenace determinazione, era convinta: “Tornerà”.
Dovette cedere all’evidenza. La sua speranza divenne un lumicino sempre più fievole, fino a spegnersi definitivamente.
Rimase a lavorare con il padre con quell’atteggiamento rassegnato di chi ha inteso che nulla si può se il destino ti è avverso.
Persa nei suoi pensieri, vide finalmente arrivare i fratellini, li abbracciò come al solito, quasi soffocandoli. I due si scambiarono occhiate stupite, erano felici di quel calore umano, sentivano di esser benvoluti.
La loro visita durò pochi minuti, il tempo di scaldarsi un po’, mangiare una fetta di torta, e poi ripartivano. Le giornate di gennaio avevano pochi sprazzi di luce.
Una domenica i due fratellini non si presentarono. Era la prima volta. Nessuno ci fece caso.
Quando non si videro nemmeno la domenica successiva, l’ostessa si inquietò.
Partì quel lunedì mattina del 4 gennaio verso la casa dei fratellini.
Non si immaginava fosse così dura (en mès ala néf mola), si sprofondava con una facilità disarmante. Si immaginava l’enorme difficoltà di quelle due piccole creature nel salire con lo zaino pieno su quelle ripide salite.

Finalmente arrivò alla baita, bussò più volte, nessuno rispose. Entrò spingendo con forza l’enorme portone.
Una donna, doveva essere la madre dei due piccoli, stava allattando un neonato. La donna rimase quasi indifferente a quella nuova visita; alzò per un attimo lo sguardo per poi subito riabbassarlo, quasi provasse vergogna.
Altri due bambini seduti vicino al fuoco sembravano ipnotizzati dal calore della fiamma.
Un ragazzo più grande, con il padre, costruiva trappole per uccelli (gli archetti).
L’ostessa non vedeva i due fratellini. La domanda le uscì dal petto carica dell’ansia accumulata
durante tutto quel tragitto faticoso. “Endò ei i altèr du gnari?”.
A quelle parole la mamma cominciò a piangere sommessamente, di colpo quel lamento si
trasformò in uno spasmodico silenzio. Il padre la guardò severo, quasi avesse profanato un
segreto. Cercò negli occhi dell’ostessa un conforto, un aiuto.
“I’è spariçc! G’ò sercàt en töte le bande!” Si lasciarono in un gelido silenzio.

Nel viaggio di ritorno l’ostessa cercava di immaginare cosa potesse essere accaduto a
quelle creature indifese. Travolti dalla neve, caduti in qualche burrone o peggio, rapiti da qualche malintenzionato. L’ultimo pensiero la fece rabbrividire. Per i quattro giorni successivi si alternarono
gruppi di uomini e donne a cercarli, non furono più trovati.
Da piccolo, quando mio nonno mi accompagnava lungo quel sentiero che da Graticelle
arriva in Cindosso, un brivido di paura mi correva lungo la schiena; rimanevo in un religioso
silenzio di fronte a quella baita ormai abbandonata, era stata la dimora dei due bambini.
Speravo con tutta la mia immaginazione di vederli accanto al fuoco abbracciati alla loro
mamma che li aveva aspettati invano per una vita intera.
Mio nonno mi osservava pensieroso grattandosi la testa. Il sole in un batter d’occhio
fece capolino. Le nostre ombre si allungavano sulla neve ghiacciata.
Il cielo blu cobalto, limpido da togliere il fiato, osservava con indifferenza la strana sorte cui noi mortali siamo destinati.
Due folate di vento tiepido ci passarono accanto.
Furono due folate ben distinte.

Un antico proverbio tibetano dice che il vento è custode delle anime. Ecco, loro erano lì con noi in quell’eterno attimo.

Renzo Cominassi


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