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 Edizione del 10/06/2019
 
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UN MINATORE

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UN MINATORE
( VERSIONE TESTUALE )

Magrolino, lo sguardo di chi gioca sempre in difesa, timoroso fino all’inverosimile, Francesco
avrà avuto al massimo dodici anni. Alle cinque del mattino mio nonno apriva il suo negozio di alimentari agli uomini che scendevano dalle montagne per andare al lavoro nelle miniere di Collio.
Puntuale come un orologio svizzero, alle 5:10 Francesco ritirava il suo panino con la mortadella.
Un bambino con le stigmate dell'adulto.
Io mi svegliavo nel mio letto caldo, un po’ assonnato scendevo in negozio a spiare quel ragazzino.
Mio nonno mi raccontava che Francesco scendeva da Baita Prada, aveva già camminato per quasi due ore e altrettante gliene mancavano per raggiungere le miniere.
Due universi distinti ci separavano.
Io un piccolo principe coccolato dai miei nonni, lui una talpa di montagna che viveva sempre al buio, sotto terra.

Ricordo quella tosse, lo tormentava in ogni momento, una tosse aspra, sembrava gli si lacerassero
i polmoni.
Il respiro, poi, sempre accompagnato da un sibilo, il viso paonazzo come le braci nel caminetto.
Incrociammo spesso gli sguardi senza mai scambiarci una parola.
Le prime volte i miei occhi dovettero sembrargli sprezzanti, e forse lo erano.
Uno sguardo calato dall’alto, di chi si sente superiore.
Lo guardavo come si osserva un cane randagio.
Quegli occhioni verdi si sottraevano a ogni incontro e rimanevano fissi verso il basso.
Mi turbava quel suo atteggiamento: caddi dal mio trono, sentii che non tutti i bambini
erano felici.
L’ho odiato: quella rassegnazione, quella ostinazione nel non alzare mai la testa, quella
smorfia di dolore dopo ogni colpo di tosse.
Dopotutto era solo un bambino.
Quel giorno Francesco mi sorprese, accennò un timido sorriso, il mio sguardo doveva
essere cambiato: più umile, più umano. Ero riuscito a stabilire un contatto.

Le mattine successive ero io a preparargli il panino.
Per la prima volta uno di fronte all’altro, ci stringemmo la mano con un po’ d'imbarazzo
ma con tale energia che scoppiammo a ridere.
Per qualche giorno Francesco non passò dal negozio, non ci badai.
I bambini costruiscono e distruggono i loro mondi con una facilità disarmante, quasi intuissero
l’inconsistenza della vita.
“Oggi andiamo alla malga Prada a trovare Francesco”, disse mio nonno.
Non me lo feci ripetere due volte. In un batter d’occhi ero pronto.
Seguii il nonno per un sentiero faticoso, una fastidiosa pioggerellina ci accompagnò per tutto il tragitto.
Nel cielo grigio nuvoloni scuri sfrecciavano velocemente verso nord.
Il nonno faceva l’andatura, io arrancavo dietro di lui cercando di tenere il suo passo.
Ogni tanto si fermava ad ammirare il paesaggio: era una scusa per farmi rifiatare.
Il tutto si svolgeva in religioso silenzio.
Finalmente arrivammo, sembrava ci aspettassero, il padre, un omone dagli occhi buoni,
e la madre, una donna minuta, osservavano due bambini che si rincorrevano attorno al tavolo.
Vidi Francesco adagiato su una brandina, una sorta di cuccia accanto alla stufa.
Il respiro era affannoso, bramava aria. Poco dopo si accorse della mia presenza.
Il suo sorriso disarmante mi commosse, me lo porto ancora stampato nella memoria.
Feci uno scatto e mi avvicinai a lui. Sua madre fece un gesto di difesa e io mi fermai di
colpo.
Francesco mi sussurrò qualcosa che non capii, guardai la madre che mi fece un cenno
di assenso e mi avvicinai.
Gli strinsi la mano, scottava. Poi sollevò i suoi occhioni verdi su di me, un accesso di
tosse lo fece sobbalzare, poi un altro e un altro ancora.
Sembrava soffocare, sudava e tremava allo stesso tempo.
Mi accorsi dello sguardo implorante del padre verso mio nonno, lo sguardo di chi ormai
può solo sperare nel Divino.
Nello stesso istante la madre lo fulminò, lei ancora non si rassegnava.
Si avvicinò a Francesco, se lo strinse cullandolo con amore fino a che si addormentò.
La stanza precipitò in un silenzio surreale.

Nel viaggio di ritorno io e il nonno camminammo fianco a fianco ma lontani.
Un forte vento aveva spazzato via le nubi, tutto intorno a noi era più luminoso.
Le gocce che scendevano dagli alberi sembravano gemme preziose.
Francesco non poteva m.....; quella parola mi tornava in gola.
Volevo una garanzia assoluta da mio nonno, non ebbi il coraggio di chiederla, sapevo
che nessuno può darla.
Morì qualche giorno dopo.
Durante quelle vacanze mi sedevo sul poggiolo di casa a mezzogiorno, guardavo il sole,
le montagne che si stagliavano nitide all'orizzonte, le nuvole bianche trascinate dal vento
in quell’azzurro infinito, poi chiudevo gli occhi e immaginavo di essere lì con Francesco.
Dopo tutto quel buio, più luce sognavo, più luce desideravo.
Qualche anno dopo suo padre raccontò a mio nonno che le ultime parole del figlio furono:
“Bubà, l’è finit töt trop prest… trop prest”.

Renzo Cominassi (tratto da “ Racconti della Valtrompia”)


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