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Stelle, lacrime divine

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Stelle, lacrime divine
( VERSIONE TESTUALE )

C’è un episodio della mia vita, rimasto in quella parte della memoria collegata con fili invisibili all’anima, che si ripresenta puntualmente ogni notte.
Non è molto chiaro: sono come flash che di colpo illuminano momenti della mia infanzia; non eventi clamorosi, al contrario, eventi quasi impalpabili che passano senza lasciar traccia; salvo poi registrarsi in modo indelebile nella mia memoria.
Scrivo per sistemare queste luci improvvise, per trovare quella giusta distanza che mi permetta di veder chiaro senza esserne abbagliato.
La mia infanzia l’ho vissuta in un paesino di montagna coi miei nonni.
Quella mattina, sentii mia nonna precipitarsi giù dalle scale ad aprire il portone.
Doveva essere molto presto, la mia camera era ancora al buio.
Rimasi in silenzio, immobile nel letto, cercavo di intuire cosa fosse quel trambusto giù da basso.
Mi alzai incuriosito, sentii uno strano bisbiglio, man mano scendevo le scale, quel bisbiglio
si trasformò in pianto.
Spaventato, mi bloccai di colpo, sbirciai allungando la testa, con sorpresa notai quel bambino un po’ più alto di me, capelli biondi, molto magro.
Gli occhi pieni di lacrime, un singulto spasmodico lo obbligava a balbettare parole incomprensibili.
Le lacrime avevano inondato la camicia da notte di mia nonna che, smarrita, confusa, accarezzava con delicatezza il piccolo capo di quel bambino, cercando di tranquillizzarlo.
Osservavo affascinato la scena che mi si presentava davanti.
Non era un capriccio, nemmeno un dolore fisico, intuire quella sofferenza indicibile mi travolse. Immobile sulle scale piangevo di un pianto desolante, mi sentii tremendamente solo, senza ripari.
Non so quanto tempo rimasi lì come imbambolato; mi accorsi che era lui che mi osservava stupito. Non disse una parola, le sue lacrime erano evaporate. Un sorriso amaro aveva disegnato sul suo viso una strana smorfia.

Un brivido di paura mi scosse da quel torpore: come può un bambino della mia età soffrire così tanto? Non lo concepivo, non riuscivo a trovare una spiegazione.
Nel pomeriggio cercai di capire dai discorsi dei miei nonni cosa fosse successo.
“Ci ha lasciato”, “É mancata”. La mia angoscia saliva in modo vertiginoso, quelle frasi sospese a metà rimanevano degli enigmi insuperabili.
L’indomani mia nonna mi obbligò a vestirmi da festa. Non proferì parola, mi prese per mano e mi fece seguire un lungo corteo.
Il sole splendeva in mezzo ad un cielo terso, il caldo rallentava ogni nostro passo. Centinaia di persone seguivano una cassa in legno portata a spalle da quattro uomini molto robusti.
L’avevo cercato con affanno, i nostri sguardi s’incrociarono per pochi secondi. Non piangeva
più. La sua arrendevolezza nel procedere sembrava senza speranza, di chi è stato abbandonato
in modo inesorabile.
Mia nonna, accortasi del mio smarrimento, mi diede una brutale spiegazione: “la nonna di
Danilo è salita in cielo su quella stella luminosa che vediamo ogni sera”.

Tutto quel disperarsi per volare su quella stella?
Anch’io avrei voluto volare lassù, non dentro quella cassa naturalmente.
Qualcosa non tornava, da quell’estate guardai con sospetto le stelle. Quante lacrime costavano!
Poi intuii con il tempo: “le stelle sono lacrime divine di chi dall’alto del cielo osserva ogni giorno la sua creazione e non può che piangere, un po’ per commozione, un po’ per dolore, un po’ per quell’infinita nostalgia di chi sa di esser stato dimenticato, abbandonato”.
Non gli resta che pianger… stelle.


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