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domenica 19 maggio 2024 | 00:19
 Nr.2 del 18/02/2008
 
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INVITO AL CONFRONTO CON UN GRANDE ERETICO
«In nove anni, avevo visto tre Russie distinte: quella della NEP, del piano quinquennale, del capitalismo di Stato o, come si dice oggi, della “vita gioconda e agiata”. Un tale Paese, qualsiasi cosa accada, non morirà mai»


  


Se si escludono alcune indicazioni di tipo più specifico, legate ad una temperie temporale precisa, tale descrizione della realtà della Russia è ancora valida ed efficace per interpretare perfino le tragiche pagine susseguite alla disgregazione dell’URSS.
Si tratta di un giudizio espresso alla fine degli anni trenta da Ante Ciliga nelle righe conclusive di un’opera apparsa a Parigi nel 1938 dal titolo emblematico Au pays du grand mensonge. Il volume descriveva con accento distaccato e spietatamente critico l’esperienza decennale di un giovane rivoluzionario che, giunto in URSS nel 1926, dopo aver ampiamente lavorato come rivoluzionario di professione all’interno del movimento comunista, inizia a percorrere un aspro cammino di presa di coscienza delle gravi contraddizioni che segnavano quella che doveva essere la «Patria del Comunismo», in via di trasformazione verso il superamento delle classi e l’eliminazione di ogni forma di ineguaglianza.
Ma prima di addentrarci fra le pagine di quel denso lavoro conviene fermare la nostra attenzione su Ante Ciliga come ci viene presentato da Paolo Sensini e Pier Paolo Poggio nei due saggi che introducono e fanno da postfazione al volume Nel paese della grande menzogna. URSS 1926-1935, edito dalla fondazione Luigi Micheletti in coedizione con la Jaca Book (Milano, 2007, pag. 503, € 35). Ciliga, nato nel 1898 vicino a Pola, rappresenta quasi un modello ideale della gioventù europea e balcanica che entra nella vita civile quando l’esacerbarsi dei nazionalismi favorisce l’esplosione bellica della Grande Guerra. Nazionalista, si schiera poi su posizioni sempre più radicali diventando membro della socialdemocrazia croata e infine si colloca su posizioni comuniste. Giunto a Vienna come membro della sinistra del partito croato, compie di qui il grande salto verso Mosca. Solo che l’esperienza moscovita, invece che tradursi in una cieca esaltazione del sistema sovietico o nella fatale subordinazione alla dirigenza staliniana, diventa il banco di prova della sua irrevocabile radicalità che lo porta a schierarsi su posizione di critica al Comintern per poi finire in prigione e esperire la trafila delle prigioni politiche della Siberia, dove sono confinati i membri della vecchia guardia comunista, trotzkisti, radicali di sinistra, anarchici che sempre più schiacciati e sfibrati dalla violenza della macchina totalitaria del regime mantengono pur sempre viva la fiamma di una protesta che trova mille e mille forme per esprimersi anche di fronte alla violenza della struttura carceraria.
Dopo cinque anni e mezzo di peregrinazioni Ciliga riesce a farsi espellere dall’URSS. Lui e pochi altri, come Victor Serge, hanno la fortuna di trovare un varco nelle maglie della macchina burocratica dello stalinismo e poter così continuare il loro itinerario di attività politica e di testimonianza. Testimonianza? È qui il paradosso che, sia pure in forma diversa, si incarna nelle persone di questi grandi dissidenti ed eretici del comunismo leninista e post leninista. Infatti le loro opere, per un caso del destino, ma forse vi è qualche cosa di più su cui cercheremo di ragionare, sia pure brevemente, sono destinate ad essere colpite dall’anatema della sinistra ufficiale di marca moscovita e nel contempo non trovano alcuna attenzione presso l’editoria e la cultura anticomunista, quasi esistesse un implicito patto di damnatio memoriae nei confronti di chi non era stato alle regole del gioco. Il caso più paradossale è proprio quello del volume in questione che rappresenta il primo importante documento, sostenuto da una tale messe di informazioni da risultare a suo modo schiacciante, sulla tragica trasformazione dell’URSS da paese dove si era cercato di avviare un processo di grande innovazione politica, sociale e culturale in una forma, più o meno involuta, di neoimperialismo. Nessun editore italiano ha voluto per decenni, come testimonia Poggio, pubblicare il volume dopo una edizione parziale all’inizio degli anni cinquanta realizzata dall’editore G. Casini, che non ebbe alcuna fortuna tanto da divenire ben presto una rarità editoriale.
Nonostante lo sviluppo negli anni sessanta delle polemiche sui Gulag e i successi editoriali dei vari Solgenitsin e soci, Ciliga è rimasto all’indice. Ci chiediamo: non è che tutto ciò sia da addebitare al fatto che il vecchio intellettuale antistalinista non ha mai abbandonato la sua fede nella possibilità di realizzare una trasformazione socialista della società secondo un modello internazionalista e fondato veramente su quelle parole d’ordine di giustizia ed eguaglianza senza le quali l’intera proposta di una politica di sinistra si trasforma in vuoto sofisma?
In ogni caso non si può che esprimere riconoscenza alla Fondazione Luigi Micheletti che con coraggio intellettuale, in una realtà come quella che viviamo di viltà e fuga nelle più ingenue mitologie o in revisionismi più o meno irrazionali, tramite la riproposizione di questo volume ci invita a rimettere in discussione la nostra storia per leggerla senza farsi traviare da pregiudizi e su di essa avviare una radicale ridefinizione della nostra identità.
Il tema del volume di Ciliga è, come credo si sia ben capito, null’altro che una riproduzione del viaggio di un Ulisse del XX secolo attraverso le disillusioni di una esperienza vissuta con la più grande onestà sul filo del proprio sacrificio personale e con la decisa volontà di porre la difesa della verità al di sopra di ogni interesse individuale. Dall’ingresso nei confine dell’URSS alla esperienza presso gli uffici centrali del Comintern, fino alla esplicita rottura con la dirigenza stalinista e la prima fase della vita nelle prigioni di stato Ciliga ci offre uno spaccato viepiù tragico di una esperienza che, iniziata con una carica di idealità e di speranza, si trasforma, momento dopo momento, nella scoperta delle quotidiane contraddizioni di un regime che si definisce portatore di libertà e nella sostanza è espressione di un asfissiante controllo pianificato. Tanto che è proprio nel momento della rottura che Ciliga può provare quelle esperienze di sofferta libertà dovuta alla solidarietà che unisce i dannati di una tragedia storica che però sono ben decisi a lottare e a «vendere cara la pelle» mantenendo, anche di fronte al quotidiano rischio della vita e alla miserie di chi si sottomette con spregevoli riconoscimenti di colpe mai commesse, la propria ferma opposizione.
Ciò che ci appare di fronte agli occhi è un’umanità che nelle più varie forme ha vissuto una formidabile avventura e ha cercato di rispondere agli imperativi di una scommessa tanto ardua a seconda delle proprie capacità. L’esito è stato, dice Ciliga, fallimentare, anzi un fallimento che ha coinvolto non solo alcune generazioni, ma anche i presupposti teorici e pratici di un’intera età della pratica politica. Insomma, non basta fare i conti con la burocrazia stalinista ma anche con Lenin e forse perfino con Marx. Ma è una partita che deve essere affrontata poiché in gioco è la possibilità stessa di realizzare la liberazione dell’umanità dalle catene dello sfruttamento. Si tratta insomma di percorrere una strada lunga e tutt’altro che agevole ma necessaria, che parta da una critica aspra dei nostri stessi errori. È una via difficile ma ineludibile, di qui la scommessa che abbiamo anche oggi di fronte a noi.

Giulio Toffoli


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